Transi sul sepolcro di Giovanni Battista Gisleni
Chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma
"Ricordati che devi morire" (in latino, memento mori) è un monito cristiano, che si è diffuso a partire dall'Età Medievale. Con esso si voleva rammentare al fedele la brevità e la vanità della vita terrena, che doveva essere vissuta unicamente in preparazione della vera vita, quella ultraterrena. La Morte, dunque, non viene vista come punto d'arrivo, ma come punto d'inizio dell'esistenza più vera. La necessità di diffondere il messaggio a tutti i livelli, anche alle persone più umili ed analfabete, fece sì che tale concetto generasse tutta una serie di rappresentazioni simboliche che permearono le arti dal Medioevo in poi, almeno fino all'Ottocento. Il tema della Morte, e di tutto ciò che ad essa è collegato, viene mostrato in simboli ed allegorie nell'arte pittorica, nella scultura, nell'architettura e persino nella musica, nella poesia e nella letteratura. Nella figura a lato, Joan De Joanes (1505 – 1579): "Calavera (Memento Mori)" (Museo di Valencia) |
Il contesto più frequente per incorrere nella simbologia del memento mori è, ovviamente, quello dell'arte e dell'architettura funeraria. L'elemento che ricorre più spesso in questa simbologia è il teschio. Da solo oppure sovrapposto ad una coppia di tibie incrociate, questo emblema è da sempre stato associato all'idea della morte, tanto da essersi perpetrato sino ad oggi, raffigurato nei cartelli di avvertimento di "pericolo di morte". Pochi sanno che l'emblema del "teschio e ossa", prima ancora di campeggiare sulle bandiere delle navi pirata (il suo utilizzo, in questo senso, cominciò a diffondersi intorno al 1700), fece parte della simbologia dei Cavalieri Templari. Questo vessillo, comunemente noto come Jolly Roger, univa il tema della testa (il cui culto, grazie alla particolare che quest'Ordine aveva per San Giovanni Battista, il cui capo mozzato è, oltre che una reliquia di grandissimo valore, anche d'importanza simbolica fondamentale), con quello della croce patente, dissimulata dalle due tibie. Troviamo raffigurati teschi, con o senza ossa, sulle lapidi e sulle pietre tombali, spesso accompagnate da clessidre, o clessidre alate, che ricordano all'osservatore che il "tempo vola" (tempus fugit). Nell'immagine a lato è possibile vedere un chiaro esempio di questa simbologia; la lapide si trova insieme a molte altre simili presso il cimitero della chiesa parrocchiale di St. Andrew's, ad Hartburn (Northumberland, Regno Unito), appartenuta ai Templari nel XIII sec.
Un altro motivo abbastanza diffuso, specialmente a partire dal XV sec., è quello della raffigurazione di una tomba aperta, con all'interno il corpo del defunto decomposto oppure ridotto al solo scheletro. Questo schema figurativo viene chiamato transi (dall'omonima voce verbale latina del verbo transere, che significa "io passai"). L'immagine di apertura mostra il bassorilievo funerario apposto sul sepolcro dell'architetto del Barocco italiano Giovanni Battista Gisleni (1600 – 1672), collocato nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma, come esempio lampante di transi.
Un altro elemento figurativo molto importante è la Danza della Morte, spesso chiamata anche danse macabre in una locuzione derivata dal francese. In questo tipo di rappresentazione, viene presentata la morte sotto forma di Signora Oscura, con tanto di cappuccio e di falce (Grim Reaper, in inglese), la quale danzando allegramente miete le sue vittime con il suo strumento affilato, abbattendo indistintamente ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne, papi e re. Abbiamo molti esempi, in Italia ed in Europa, di questo tema iconografico; quello mostrato qui è "La Cavalcata della Morte", affrescata lungo le pareti della Scala Santa presso il monastero benedettino del Sacro Speco, a Subiaco (RM).
L'apoteosi di questo tema è, in molte opere medievali, il cosiddetto "Trionfo della Morte", del quale possiamo ammirare uno splendido esempio nell'omonimo dipinto del Buffalmacco, esposto nel salone degli affreschi del Cimitero Monumentale di Pisa. L'opera, realizzata tra il 1336 ed il 1341, presenta nella sua scena centrale pile di cadaveri ammucchiati, appartenenti a tutti i ceti sociali, mentre schiere di angeli e demoni si contendono le anime di propria competenza, che sono rappresentate come figure di "fanciullini" che fuoriescono dai corpi e dalle bocche. In un angolo di questa scena monumentale (che misura 5,6 x 15 m), quello in basso a sinistra, troviamo un altro famoso tema iconografico tipico del filone del memento mori, l'incontro dei tre vivi e dei tre morti. |
Questa tematica prende spunto da un poemetto francese del 1275, intitolato "Dict des trois morts er des trois vifs" e firmato da Baudouin de Condé. In questi pochi versi si racconta di come tre giovani cavalieri che un giorno decidono di fare una passeggiata a cavallo tutti assieme. Durante il cammino, essi si imbattono in tre morti viventi, che parandosi loro innanzi, proferiscono le seguenti parole: "Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso".
Variamente diffuso, anche se non così frequentemente, nelle decorazioni pittoriche dell'Europa medievale, è un tema che ha ispirato diverse varianti. A volte i tre morti giacciono all'interno di altrettante bare, come nel caso del Trionfo del Buffalmacco (dove essi vengono presentati addirittura in tre stati diversi di degradazione: il cadavere ancora fresco, quello in putrefazione e quello già scheletrito, con tanto di serpenti che li avvolgono tutti attorno), altre volte essi si presentano come scheletri "parlanti", a mezzo di cartiglio che riporta le parole dei personaggi come un moderno fumetto (come nel caso dell'affresco presente nella Sacra di San Michele, in Piemonte), oppure come cadaveri decomposti ma viventi (come vediamo all'interno della Chiesa del Santo Spirito a Wismar, nella Germania baltica, v. immagine).
Una piccola galleria degli esemplari che abbiamo personalmente documentato si può trovare su questo stesso sito nella sezione dedicata alle Gallerie (pagina "Incontro dei tre vivi e dei tre morti").
Il Camposanto pisano è soltanto uno dei tanti esempi di monumenti destinati all'esposizione della tematica mortuaria, nel contesto più classico che si posa concepire: il cimitero, luogo di riposo e di venerazione dei morti. Ma vi sono svariate altre forme espositive che sono molto più d'impatto, e che fungono da perfetto esempio concreto di memento mori in grande. È il caso di quelle cappelle realizzate con teschi e resti ossei di ogni tipo, arrangiati in bizzarre decorazioni e sculture varie che ricoprono pareti, soffitti e pavimenti. Celebre in tal senso è il caso della Cripta dei Cappuccini che si trova a Roma, in Via Veneto. Nelle cinque cripte sotterranee della Chiesa di Santa Maria Immacolata le ossa di circa quattromila frati, raccolte tra il 1528 ed il 1870, sono acconciate in modo da formare decorazioni artistiche oppure veri e propri oggetti d'arredamento, come candelabri e lampadari. All'ingresso dell'ambiente sotterraneo troviamo una targa che riporta la seguente frase, ispirata al monito dei tre morti descritto nel poemetto francese di Baudouin: "Quello che voi siete noi eravamo; quello che noi siamo voi sarete", ennesima variante sul tema del memento mori frequente in ambienti di questo tipo.
Una cripta con decorazioni simili si trova, sempre in Italia, sotto la Chiesa di San Bernardino alle Ossa, a Milano, mentre illustri esempi all'estero sono la Capela dos Ossos presso Évora, in Portogallo, e l'Ossario di Sedlec a Kutná Hora, in Repubblica Ceca. Nel casi dell'ossario portoghese, troviamo una lapide all'ingresso che recita una frase più o meno simile a quella della cripta romana: "Noi ossa che qui stiamo, le vostre aspettiamo".
Ancora più macabra, se vogliamo, è l'esposizione di corpi mummificati, che sono stati talvolta trovati all'interno di cripte sotterranee in cui un microclima particolarmente secco e condizioni ambientali tali da impedire l'aspetto degenerativo dei batteri responsabili della putrefazione dei cadaveri ha creato delle vere e proprie mummie che in molti casi hanno mantenuto persino i propri tratti fisionomici e l'ultima espressione della persona nel momento della morte.
Casi celebri sono le Catacombe dei Cappuccini, annesse alla Chiesa di Santa Maria della Pace, a Palermo, e il Museo delle Mummie allestito sotto la Chiesa di Santo Stefano a Ferentillo (TN). Di diversa natura, in quanto realizzate artificialmente tramite imbalsamazione, sono le mummie dei re aragonesi e dei principi napoletani che si trovano esposti presso la sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore, a Napoli.
Meritano una menzione a parte tutti quei casi di corpi trovati incorrotti di santi e beati, che la chiesa relega nel campo della miracolistica. Essi vengono sovente esposti in teche trasparenti alla venerazione dei fedeli, sia come esempio illustre di santità, sia come espressione di memento mori. Tra i tanti casi noti, ne citiamo almeno uno, da noi personalmente visitato, che colpisce per la sua forza visiva: il caso del corpo incorrotto di Santa Caterina de' Vigri (1413 – 1463), esposto in pompa magna presso il Monastero del Corpus Domini di Bologna.
Ispirato alle parole dei tre morti del poemetto francese già menzionato, il motto che frequentemente compare associato ad alcune forme rappresentative del memento mori è quello espresso nel titolo di questo paragrafo, con varianti più o meno marcate. Lo possiamo trovare sotto forma di cartiglio, avviso, fumetto posto in bocca a qualche scheletro o lapide, nella lingua del luogo oppure espresso nella forma latina, sovente come epitaffio: "SUM QUOD ERIS, QUOD ES OLIM FUI".
Piccolo ossario nel Santuario benedettino della Mentorella - Capranica Prenestina (RM)
Nella liturgia cristiana, il momento più intenso per ricordare al fedele la caducità e la brevità della vita umana è il rituale dell'imposizione della cenere sul capo dei fedeli, che viene celebrato tradizionalmente il mercoledì precedente la Prima Domenica di Quaresima (chiamato, appunto, Mercoledì delle Ceneri). Il celebrante nel corso della messa segna la fronte dei fedeli con un segno di croce per mezzo della cenere, ripetendo la nota formula: "MEMENTO HOMO, QUIA PULVIS ES ET IN PULVEREM REVERTERIS", "Ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai". La frase trae origine dall'episodio biblico della cacciata di Adamo dal Paradiso Terrestre (Genesi, 3, 19), quando Dio ricorda all'uomo "Con il sudore della fronte mangerai il pane finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere sei e polvere ritornerai!". Un caso noto di questa tipologia di memento mori l'abbiamo documentato presso l'ingresso del piccolo cimitero annesso alla Chiesa della Maddalena nel villaggio francese di Rennes-le-Château (v. immagine).
Una versione artistica del memento mori, usata soprattutto nelle rappresentazioni pittoriche e nella ritrattistica, è il tema della "Vanitas", ossia della Vanità. Si tratta dell'inserimento di oggetti ed immagini che alludono al tema della morte, in contesti non correlati alla fine ultima. Un primo esempio, molto tipico, sono le "nature morte", in cui, accanto a soggetti inanimati viene posto, ad es., un teschio, oppure simboli ancora più sottili, come fiori appassiti, che stanno perdendo i loro petali, o selvaggina appena cacciata.
Nella figura a lato, Juan de Arellano (1614 – 1676) e Francisco Camilo (1615 – 1673): "Ghirlanda di fiori con Vanitas" (Museo di Valencia)
Altro esempio di vanitas sono i ritratti di personaggi famosi, che scelgono di farsi rappresentare con un teschio in mano, a ricordo della loro natura mortale, e a memento dell'inutilità di certi atteggiamenti poco virtuosi. Il personaggio in questione, in pratica, intende rammentare a sé stesso ed a coloro che ammireranno il suo ritratto che l'inseguimento dei piaceri della vita, dei vizi e del soddisfacimento dei soli bisogni materiali è null'altro che vanità, il modo più semplice per smarrirsi dalla retta via che dovrebbe invece condurre alla preparazione della vera vita, quella dopo la morte. Un motto che spesso è citato rispetto al tema della vanità della vita materiale è "VANITAS VANITATUM ET OMNIA VANITAS", che si può tradurre come "Vanità della vanità, tutto è vanità". La frase è tratta dalla versione latina del Qohelet (o Ecclesiaste), uno dei libri della Bibbia ebraica e cristiana, in cui ricorre per due volte (Ecclesiaste 1, 2; 12, 8). Secondo alcune ipotesi, il vero senso del celebre crittogramma di Shugborough Hall, che si trova inciso sotto al Monumento dei Pastori del parco (Stafford, Regno Unito), non sarebbe altro che un acrostico che esprime una variante di questo motto. L'accostamento è tanto più significativo in quanto sullo stesso monumento appare la riproduzione in bassorilievo di un celebre quadro di Nicolas Poussin, i "Pastori d'Arcadia". Interpretabile anche questo come una variante sul tema del memento mori, il dipinto riporta un altro dei motti frequentemente associati a questa tematica, che ha un'importanza simbolica del tutto particolare: "Et in Arcadia Ego".
Nicolas Poussin (1594 – 1665), pittore francese che visse ed operò principalmente a Roma, dipinse "Les bergers d'Arcadie" (I pastori d'Arcadia, oggi conservato al Museo del Louvre) nel 1640 circa. Il soggetto principale del quadro, una tomba, si trova attorniata da tre pastori (due uomini ed una donna) che ne osservano curiosi l'iscrizione: "Et in Arcadia Ego". L'Arcadia era una regione greca del Peloponneso, in gran parte disabitata ma frequentata dai pastori per la ricchezza dei suoi pascoli e la fertilità delle sue terre. Col tempo, la regione è diventata espressione letteraria sinonimo di un mondo idilliaco in cui la generosità della terra è sufficiente a produrre frutti e verdure in modo spontaneo, e dove quindi si può vivere felici senza bisogni di lavorare. Sapere, dunque, che "anche io (riferita alla Morte richiamata dalla presenza della tomba) sono in Arcadia" fa riflettere sul fatto che anche in una condizione di vita agiata e senza problemi non si deve perdere d'occhio il fine ultimo dell'esistenza terrena, quello di preparazione alla vita ultraterrena, nella concezione tipicamente cristiana, perché la Morte inevitabilmente aspetta ciascuno di noi al termine del proprio cammino terreno.
Il motto, comunque, ed il tema ad esso associato non è un'invenzione di Poussin, ma è precedente. Si trova attestato per la prima volta in un quadro del Guercino, che ha proprio questo titolo, e che è stato dipinto tra il 1618 ed il 1622 (oggi si trova esposto presso la Galleria Nazionale d'arte antica, a Roma (Palazzo Barberini). Il quadro, in questo caso, mostra due pastori assorti nel contemplare un cranio umano, poggiato su un plinto sul quale sono incise le parole del motto. Un topo è raffigurato accanto alla mandibola ed un grosso moscone è posato sull'osso frontale, in corrispondenza dell'orbita sinistra. Entrambi sono simbolici dello stato di corruzione o putrefazione della materia organica, che segue subito dopo il decesso.
Il coinvolgimento di Nicolas Poussin e del suo dipinto, dietro al quale si nasconderebbero delle misteriose ed affascinanti geometrie nascoste, nel mistero di Rennes-le-Château ha fatto sì che su questo motto è stata sviluppata una pletora di teorie ed ipotesi, dalle più innocenti alle più fantasiose. In molti, ad es., hanno ipotizzato che dietro la frase si celerebbe un anagramma rivelatore. La soluzione che più frequentemente è stata proposta è: "I! Tego arcana Dei", che si traduce "Vattene! Io celo i segreti di Dio". Altri hanno sottolineato la circostanza che la frase, di fatto, manca del verbo principale, che dovrebbe essere "sum" (io sono). Il motto completo, dunque, dovrebbe essere "ET IN ARCADIA EGO SUM", ed anche per questa sequenza di lettere è stato trovato un anagramma ad hoc: "Arcam Dei tango Iesu", "Io tocco la tomba di Dio Gesù". Comunque, la frase compare più volte in tutto il mito che è stato creato intorno al mistero, ed è stata scelta come motto personale da Pierre Plantard, l'enigmatico personaggio che ha tirato le fila principali di tutta la macchinazione (v., per approfondimenti, la sezione dedicata al "Priorato di Sion").
Essendo il tema di natura universale, nessuna delle arti ne è immune. Anche la musica, in particolare, ne risente massicciamente. Senza contare la musica tipicamente funeraria e il genere stilistico dei requiem, che ha ispirato artisti del calibro di Mozart, Verdi, Dvořák, Fauré e Duruflé, esiste tutta una serie di canti e cori di origine medievale che avevano lo stesso identico scopo di preparare i vivi ad affrontare la morte, specialmente in un'epoca in cui l'aspettativa di vita era limitata ed imperversavano in tutta Europa piaghe ed epidemie che in breve tempo decimavano le popolazioni.
Particolarmente interessante da questo punto di vista è la ballata finale riportata nel Llibre Vermell di Montserrat, un libro di canti liturgici composto nel 1399 circa, che ricava il suo nome dal colore vermiglio della copertina con la quale venne rilegato nel corso del XIX sec. Il titolo della ballata, "Ad mortem festinamus" (cioè, "Affrettiamoci alla morte") ben indica il tenore del testo, a contrasto del ritmo vivace che lo rende adatto ad essere ballato con foga. Due stanze particolarmente illuminanti a questo proposito sono la seconda e la terza, riportate di seguito:
Vita brevis breviter in brevi finietur, |
La vita è breve, e brevemente finirà |
Ascoltalo qui: |
L'ncontro dei tre vivi e dei tre morti: galleria iconografica