Busto di Attis che indossa un berretto frigio
Parigi, Bibliothèque Nationale de France - Cabinet des médailles
Il berretto frigio era un copricapo tipico dell'abbigliamento persiano diffuso tra il VI e il II sec. a.C., solitamente realizzato in pelle di capretto e tinto di un vistoso colore rosso. Esso prende il suo nome dalla regione della Frigia, una regione dell'Asia Minore corrispondente all'odierna Anatolia Centrale (Turchia). Veniva indossato principalmente dai sacerdoti del dio Sole, ed era costituito da un copricapo di forma conica con la punta ripiegata verso il basso, oppure all'indietro. Questa forma particolare deriva dal fatto che in origine un berretto veniva ricavato dalla pelle di un intero capretto, con le zampe posteriori legate sotto il mento e quelle anteriori che si ripiegavano sulla sommità e formavano la caratteristica punta.
Con il passare del tempo, i numerosi culti misterici che dall'Oriente hanno cominciato a diffondersi nell'Occidente, hanno portato con essi la figura simbolica del berretto frigio, che così è diventato sinonimo di iniziazione. Lo troviamo indosso a Mitra ed ai suoi compagni nelle rappresentazioni delle tauroctonie, oppure in testa ad altre figure mistiche come quelle di Attis o di Orfeo, ai Magi persiani in alcune primitive rappresentazioni cristiane, fino a tempi più recenti, sul capo della Marianne, la rappresentazione allegorica della Repubblica di Francia. Proprio in Francia, tra i famosi gargoyles sul tetto della Cattedrale di Nôtre-Dame di Parigi, troviamo la figura dell'Alchimista, un vecchio saggio dall'atteggiamento pensoso, con la barba fluente ed il caratteristico copricapo calcato sulla testa (v. immagine a lato, tratta dal sito della Loggia Massonica ferrarese "Giordano Bruno").
Rappresentazione tipica della tauroctonia mitraica
(dal Mitreo di Tor Cervara, Museo Nazionale Romano)
Questo particolare copricapo era uno degli attributi del dio Mitra, con il quale viene sempre raffigurato nelle scene dell'uccisione del toro (tauroctonia), l'iconografia fondamentale del culto mitraico. Non solo il dio, ma anche gli altri comprimari della scena, ovvero i due dadofori Cautes e Cautopates, indossano sempre la berrettina conica nelle rappresentazioni a corredo dei mitrei. Quello di Mitra era un culto misterico, aperto solo a pochi iniziati e dal quale venivano escluse le donne. Diffuso inizialmente nel regno Persiano, come culto corollario a quello principale dello Zoroastrismo, arrivò in Occidente intorno al I sec. d.C., importato dalle legioni romane di ritorno dalle campagne militari in Oriente. Qui il culto assunse una forma indipendente, leggermente differente da quella originaria, le cui peculiarità e caratteristiche ci sono giunte a noi attraverso i pochi racconti, fatti comunque da persone estranee al culto, e soprattutto dalle vestigia (affreschi, statue, bassorilievi e suppellettili) trovate in abbondanza nei siti archeologici degli antichi mitrei.
La Frigia era anche uno dei principali centri ov'era diffusa l'adorazione della dea Cibele, la Grande Madre anatolica. Dalla Frigia, il culto passò attraverso la Lidia e raggiunse le colonie greche in Asia Minore, giungendo alfine in Grecia, da cui prese a diffondersi sul continente europeo. Cibele era la dea che presiedeva alla natura, agli animali ed ai boschi selvatici, ed aveva il suo principale centro di culto a Pessinunte, dove veniva adorata sotto la forma di quella pietra nera di cui abbiamo già parlato, e che si diceva fosse stata fatta cadere dal cielo dalla dea stessa. Cibele veniva rappresentata in trono, affiancata da due leoni, con un tamburello in mano e la corona turrita sul capo.
Collegato al culto di Cibele era quello di Attis, il giovane amante della dea. Il mito di Attis, dai forti connotati simbolici ed iniziatici, assume diverse forme e varianti, ma in linea generale può essere riassunto nel modo seguente. Zeus, il re degli dei, desiderava ardentemente unirsi a Cibele, di cui si era innamorato, senza riuscirci. Mentre una notte sognava un amplesso con lei, ebbe una polluzione, ed il suo seme cadendo a terra bagnò una pietra, generando il giovane ermafrodita Agdistis (si ricordi, a questo punto, che anche Mitra nacque da una pietra). Costui era un giovane malvagio e strafottente, che non esitava ad oltraggiare tutti gli altri dei, al che costoro decisero di evirarlo, trasformandolo in donna. Dal membro strappato, caduto in terra, si generò una pianta di mandorlo (secondo altri, di melograno: i frutti di entrambi gli alberi, comunque, conservano tutt'oggi tra i loro significati simbolici quello di fertilità). Si tramanda poi che la ninfa Sangaride, figlia del dio fluviale Sangario, rimase talmente attratta da tale mandorlo da raccoglierne un frutto e nasconderlo in seno. Subito il frutto entrò in lei ed ella rimase incinta; dal suo ventre nacque Attis, il bel giovane di cui si innamorò Cibele. Qui il mito si divide: secondo alcune versioni, la dea tratteneva Attis presso di sé coinvolgendolo in amplessi senza sosta, al che il giovane fuggì per cercarsi altre donne. Un giorno, mentre giaceva con una donna mortale sotto l'ombra di un enorme pino, venne scoperto dalla dea e colto dal rimorso si uccise. Secondo altre versioni, fu la stessa Agdistis, ormai divenuta donna, ad innamorarsi, non ricambiata, di lui, ignara del fatto che fosse suo figlio. Quando si presentò alla cerimonia di nozze di Attis, che era stato mandato a Pessinunte per sposare la figlia del re Mida, per gelosia fece impazzire tutti i presenti, compreso suo figlio che per la follia andò ad evirarsi sotto un pino. Dal sangue caduto in terra, si generarono delle viole mammole. Pentito del suo gesto, in seguito chiese ed ottenne da Zeus che il corpo di Attis rimanesse sempre incorrotto e che i suoi capelli continuassero a crescere anche dopo la sua morte.
Il mito di Attis descrive, sotto forma di allegorie simboliche, l'eterno ciclo naturale di morte e rinascita (la rigenerazione) ed i culti a lui tributati, che ben presto assunsero carattere misterico, fanno parte di tutti quei rituali celebrati ai fini della propiziazione della produttività e della fertilità della terra. Attis, nell'iconografia, è sempre rappresentato con il berretto frigio, e questo indumento tipico è diventato anche un emblema dei culti di questo tipo. Nel Sacello di Attis collocato all'interno del Campo della Magna Mater presso gli scavi di Ostia Antica sono state rinvenute diverse sculture raffiguranti il dio sotto varie sembianze, secondo una tendenza al sincretismo tipica delle religioni orientali, in virtù della quale Attis era di volta in volta assimilato a diverse divinità: Pan (v. immagine a lato), Dioniso, Mitra, il Sole. D'altronde, non si dimentichi che l'affinità con il dio Mitra non è casuale: anche il Mitraismo, alla fine, contemplava gli stessi misteri, tanto è vero che dopo l'uccisione del toro, il sangue di quest'ultimo caduto a terra ha generato piante, fiori e frutti e, simbolicamente, la coda dell'animale si tramuta in una spiga di grano.
Dopo Mitra ed Attis, un altro grande "iniziato" del mondo antico veniva rappresentato, talvolta, con il capo coperto da un berretto alla frigia: si tratta di Orfeo, il mistico cantore in grado di placare con la sua musica l'ira degli dei, la furia dei mostri, l'impetuosità delle tempeste. Lo troviamo rappresentato in questo modo, ad esempio, in un mosaico pavimentale romano di età imperiale conservato presso il Museo Archeologico di Palermo (v. immagine, foto di Giovanni Dall'Orto. L'eroe è raffigurato con l'inseparabile lira circondato da animali, ed indossa il berretto frigio nel suo colore tipico, il rosso.
Figlio della musa Calliope e del sovrano tracio Eagro (o, secondo altre versioni, dello stesso dio Apollo), Orfeo fu uno degli eroi più attivi del gruppo degli Argonauti, che guidati da Giasone si misero in viaggio verso la Colchide per la conquista del Vello d'Oro. Orfeo è noto anche per il proprio dramma personale, quando decise di scendere negli Inferi per riprendersi l'anima dell'amata Euridice, morta a causa del morso di un serpente mentre sfuggiva alle brame di Aristeo. Grazie al suono incantato della sua lira, Orfeo riuscì a superare tutti gli ostacoli: dal traghettatore Caronte al mostruoso cane a tre teste Cerbero, passando di avventura in avventura fino a giungere al cospetto di Ade e Persefone. Fu quest'ultima, addolcita dalla musica divina, che concesse ad Orfeo la possibilità di riportare indietro l'anima della sua amata, all'unica condizione di non voltarsi mai indietro prima di essere usciti definitivamente dagli inferi. Condizione a cui Orfeo, come in ogni tragedia greca che si rispetti, non riuscì ad attenersi, perdendo all'ultimo momento, quando ormai pensava di avercela fatta, la sua amata per sempre.
Ad Orfeo furono legati dei culti iniziatici che si diffusero in Grecia a partire dal VI sec. a.C., chiamati misteri Orfici. I principi base dell'Orfismo presupponevano la credenza nella divinità dell'anima, e quindi nella sua immortalità, da raggiungere con una condotta di vita opportuna, incentrata sulla purezza.
La Libertà che guida il Popolo (1830, Eugène Delacroix)
(Parigi, Museo del Louvre)
In epoca romana, cominciò a diffondersi l'usanza di donare un berretto di questo tipo agli schiavi liberati dai propri padroni (i cosiddetti liberti). Fu dunque a partire da quest'epoca che il cappello frigio (che i latini chiamavano pileus e che venne raffigurato anche su alcune monete dell'età imperiale) divenne anche emblema di libertà. Negli anni della Rivoluzione Francese, il berretto frigio veniva indossato dai galeotti di Marsiglia che vennero liberati nel 1792. Per questo, dunque, oltre al già consolidato significato di libertà, il berretto frigio divenne anche simbolo di Rivoluzione. È in questo senso che a partire da quegli anni questo tipo di copricapo appare sempre sul capo di Marianne, la raffigurazione allegorica della Repubblica Francese, come si può vedere anche nel celebre quadro di Eugène Delacroix, "La libertà che guida il popolo" (1830), oggi conservato al Museo del Louvre.
Dall'uso del berretto frigio per la rappresentazione di personaggi detentori del Sapere iniziatico non fu immune nemmeno la Chiesa Cristiana. Un esempio notevole lo abbiamo documentato all'interno di una delle chiese più importanti della Cristianità, la Basilica dei SS. Apostoli che si trova a Roma, e che fa parte del circuito delle "Sette Chiese". La cripta della basilica, che si apre sotto l'altare maggiore, venne realizzata nel 1869-71 da Luigi Carimini, per raccogliere le reliquie di diversi martiri cristiani e le spoglie dei due santi titolari, gli Apostoli Filippo e Giacomo il Minore. Tra le decorazioni ad affresco di tipo "grottesco" che ornano le pareti della cripta, ispirate alle pitture murali ritrovate nelle catacombe di San Callisto e di Domitilla, troviamo un'Adorazione dei Magi in cui i tre re sono raffigurati come saggi persiani che indossano, per l'appunto, un berretto frigio di colore rosso.
I Magi nella Basilica dei SS. Apostoli a Roma |
I Magi nella Basilica di Sant'Apollinare a Ravenna |
Un esempio ancora più antico ci è stato segnalato dall'amico e ricercatore Giancarlo Pavat, il quale ci ha fornito la splendida immagine di un mosaico di origine medievale che si trova all'interno della Basilica di San Vitale, a Ravenna, dove troviamo la rappresentazione di una Natività con adorazione dei Magi che, anche in questo caso, sono vestiti con la classica divisa dei sacerdoti zoroastriani ed indossano il berretto frigio di colore rosso.
Chi è stato bambino negli anni Ottanta, o chi ha avuto bambini in quegli anni, ricorderà certamente la serie animata dei Puffi, prodotta da Hanna & Barbera sulla base di un fumetto ideato nel 1959 dal disegnatore belga Pierre Culliford (1928–1992), in arte Peyo. Ebbene, i piccoli omini blu protagonisti delle storie a cartoni animati indossavano l'inconfondibile berretto frigio, bianco per tutti tranne che per il capo del villaggio, il Grande Puffo, il cui berretto è di colore rosso. Ebbene, c'è stato chi ha ipotizzato che l'autore abbia voluto rappresentare in questo suo fumetto una metafora della Massoneria, tanti sono i parallelismi simbolici tra il cartone animato e i concetti della Libera Muratoria. Massimo Introvigne, dalle pagine del sito del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), ci propone un'attenta disamina di questa ipotesi.
Tanto per cominciare, i Puffi non iniziarono come serie autonoma, ma comparvero come comprimari in un'opera fumettistica apparsa sulle pagine del Journal de Spirou il 23 ottobre del 1958, intitolata "Il flauto a sei puffi". I protagonisti sono un giovane scudiero ed un buffone di corte, John e Solfamì, che un giorno partono alla ricerca di un flauto dalle proprietà magiche. Tutta la trama si ispira alla celebre opera lirica "Il flauto magico", di Wolfgang Amadeus Mozart, i cui legami con la Massoneria furono noti ed assodati.
All'inizio della loro storia, i Puffi sono una comunità formata da 99 elementi, tutti di sesso maschile: alle logge massoniche, infatti, le donne non sono ammesse. Il numero 99 è di per sé indicativo: il triplo di 33, numero dei gradi di certi riti particolari, come quello Scozzese, ed anche il numero dei saggi vestiti di bianco che governano la Nuova Atlantide di Francesco Bacone (1561–1626), un'opera a carattere filosofico-esoterico che ebbe notevole influsso sui primi massoni britannici. Il colore blu della loro pelle, sta ad indicare le cosiddette "Logge Azzure", quelle di base, che caratterizzano la maggior parte delle massonerie mondiali, e che operano nei primi tre gradi fondamentali (Apprendista, Compagno e Maestro) senza disseminarsi nei gradi superiori. La veste bianca rappresenta la "purezza" alla quale lo gnostico deve aspirare, fa eccezione il solo Grande Puffo, ovvero il "Gran Maestro della Loggia", che indossa pantaloncini e berretto di colore rosso che fa riferimento allo Spirito e che simboleggia il grado dell'Arco Reale.
Il linguaggio dei Puffi è un modello semplificato di linguaggio, in cui il sostantivo "puffo" ed il verbo "puffare" sostituiscono una gran parte dei vocaboli di uso comune. Questo perché simbolicamente gli omini blu rappresentano la condizione "pre-adamitica" dell'uomo, cioè prima della creazione di Adamo, una condizione di purezza primordiale appartenente ad un tempo in cui, prima che Dio confondesse le lingue degli uomini che avevano osato sfidarlo costruendo la Torre di Babele, si parlava un linguaggio semplice, con pochi vocaboli necessari alla comprensione universale.
Il nemico giurato dei Puffi è un mago oscuro chiamato Gargamella: egli pratica la magia nera ed è vestito con una lunga tonaca dello stesso colore, che secondo alcuni, oltre a richiamare la malvagità della sua arte, sarebbe anche un'allusione alla veste tipica dei rabbini o dei preti ortodossi più intransigenti, come i Gesuiti, che furono anti-massoni per eccellenza. A ben vedere, il personaggio ha anche la chierica. Il mago cerca in tutti i modi di penetrare nel villaggio per catturare gli omini blu: egli rappresenta il non-iniziato che cerca incessantemente di penetrare i segreti della Loggia. Gli Ebrei comparirebbero anche metaforizzati nel gatto Birba, il fedele compagno di Gargamella. A fare il nesso in questo caso sarebbe il nome originario di questo animale, e cioè Azraël, che è un nome di origine ebraica (è il nome dell'Angelo della Morte della tradizione giudaico-cristiana) e per giunta molto simile, foneticamente, ad 'Israel'.
Per corrompere l'animo e la morale dei Puffi, ad un certo punto della serie egli inventa un espediente: la creazione di un Puffo femmina, la Puffetta, mandata nel villaggio per corrompere la pacata "androginia" dei suoi abitanti. Lo stratagemma per un po' funziona, creando scompiglio nel villaggio, ma il Grande Puffo, sempre vigile, trova il modo di rompere l'incantesimo, facendo uso di una magia più potente di quella di Gargamella. La Puffetta viene così trasformata in una creatura angelica e bionda, diventando il simbolo della Sophia, ovvero della Sapienza gnostica.
Bisogna comunque sottolineare, per chiarezza, che i legami con la Massoneria del fumettista belga Peyo non sono mai stati assodati, e che inoltre esistono altre teorie secondo cui i Puffi adombrerebbero in realtà una metafora del Comunismo o addirittura dello Stalinismo. In questo caso il berretto frigio potrebbe alludere all'altro senso simbolico, ovvero quello di libertà e rivoluzione.